sabato 5 aprile 2008

Mangiamoci gli insetti

Libri di ricette e pranzi di nozze a base di larve. Bruxelles valuta l’ok alla vendita
La sposa era bellissima. Il fatto che stesse sgranocchiando larve della farina alla griglia non toglieva nulla al suo sorriso raggiante. «Sono buone e fanno bene» giura Peter De Batist, il profeta della cucina invertebrata che ieri ad Anversa ha coordinato il più insolito dei catering matrimoniali. «Bruchi o vermi» direbbe l'uomo della strada, incapace di riconoscere in quell’essere flaccido e trasparente il Tenebrio molitor, a quanto pare una delizia nel suo genere. «È squisito, sa di noce di mandorla» assicura l’ecologista belga, evidentemente goloso di giovani tarme: «Di cosa vi sorprendete? Due terzi della popolazione mondiale mangia insetti tutti i giorni». Se ci andrà male, se il riscaldamento globale porterà l’opulento occidente sull’orlo della carestia, potrebbe essere questo il futuro delle nostre tavole. Ma l’assertivo De Batist, fiammingo di Borgerhout, 62 anni, da venti convinto entomofago, sostiene che anche se andrà bene potrebbe essere una succosa opportunità alimentare. Per non sbagliarsi ha scritto un libro di analisi e ricette che uscirà in ottobre con un titolo che non lascia dubbi, «L'uomo è un mangiatore di insetti». «Migliaia di belgi e olandesi sono ormai consapevoli che cavallette e grilli sono pietanze sopraffine», spiega. Deve essere vero, se persino l’Agenzia per la sicurezza alimentare di Bruxelles sta valutando se concedere il via libera alla commercializzazione nei supermercati del paese piatto. Secondo una stima scientifica 1417 specie appartenenti a 628 generi e 112 famiglie sono consumate quotidianamente da tremila etnie. Anche le Nazioni Unite hanno aperto un apposito dossier, solleticate da chi difende la commestibilità degli insetti in funzione della loro ricchezza di vitamine, ferro e aminoacidi nonché per la qualità dei loro grassi e proteine. A New York il menù invertebrato è tradizione dal 1904, da quando cioè esiste il Club degli Esploratori che, ogni anno, si ritrova al Waldorf Astoria e consuma piatti traboccanti di creature a sei zampe. La fonte di ispirazione è chiara, in numerose regioni dell’Africa vengono comunemente servite le torte kungu a base di mosche tritate, bollite e seccate al sole. Chi le ha assaggiate rileva che hanno il gusto del caviale e ricordano un'altra specialità prelibata, le locuste fritte. Il loro tasso proteinico è sei volte superiore a quello del fegato di mucca. Analogo è il valore del «Bombyx mori», la cui larva è comunemente nota come «baco da seta»: l’80% della sua massa è costituita da proteine. Senza andare troppo lontano fra giungle e pianure desolate, il Messico si propone come capitale degli entomofagi. I vermi della pianta di agave sono richiesti per la loro capacità di esaltare il gusto della tequila e sono venduti sul mercato a 250 dollari il chilo. Un prezzo, questo, sfiorato anche dalle escamoles (uova di formica) che, quand’è stagione, invadono i banconi dei bar affondate in una salsa all’aglio, un aperitivo che molti giudicano irresistibile. Del resto ogni singola bottiglia di Mezcal, liquore diffuso nel centroamerica, contiene un verme. Questione di gusti. Davanti allo sguardo inorridito dei più, gli entomofagi replicano che, in fondo, noi occidentali abbiamo una passione per le lumache e i molluschi, che - a loro dire - non sono altro che i cugini degli insetti. «Perché son senza spine», affermano chiosando la Società dei Magnaccioni. I vantaggi, insistono, vanno oltre le proprietà salutari delle «carni». Gli insetti si riproducono più facilmente degli animali da cortile: «Possono sfamare il mondo: mucche e maiali sono i Suv della cucina; gli scarafaggi, le biciclette». De Batist, che nel nome ci ricorda il Battista originale e i suoi 40 giorni nel deserto a base di cavallette, sostiene che l’Europa non può rinunciare a grilli fritti e torte di mosche. Nel suo libro di ricette propone delicatessen quali i «cookies alle larve» o i «bigné di grilli». Per lui è solo l'inizio. Dove si andrà a finire non si sa. Non ancora, almeno.
Fonte: La Stampa

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